I giornalisti (e la stampa in genere) che parlano di allarmi più o meno rossi in relazione allo stato di salute delle banche italiane vengono accusati di essere irresponsabili. A dieci giorni dal «rischio baratro», vale a dire dalla pubblicazione dei risultati dei nuovi stress test sugli istituti europei, c’è il sospetto che l’irresponsabilità alberghi altrove: ai piani alti dell’industria bancaria del Paese, anzitutto; e anche a palazzo Chigi. Ecco perché: il 29 luglio l’autorità bancaria europea (Eba, European banking authority) potrebbe, di fatto, dare il colpo di grazia al Monte dei paschi di Siena, decretando la necessità dell’ennesimo intervento di rafforzamento patrimoniale, insostenibile oltre che inaccettabile per gli attuali azionisti (tra cui il Tesoro, primo socio col 4%).

Una botta che corre il rischio di mettere in ginocchio la terza banca del Paese e creare, a cascata, un dissesto su tutto il settore creditizio. Che Mps sia con l’acqua alla gola, tuttavia, non si scopre oggi. Sembrano, invece, averlo capito solo recentemente sia il premier Matteo Renzi sia il ministro Pier Carlo Padoan. Il governo, insomma, si è mosso con colpevole ritardo. E ha intavolato un presunto negoziato con l’Unione europea per ottenere – in una situazione di emergenza via libera all’utilizzo di risorse pubbliche per salvare le banche, in deroga al divieto della stessa Ue sugli aiuti di Stato. Sabato anche il vicepresidente e membro italiano della Commissione europea, Federica Mogherini, ha parlato di accordi vicini, ma non si capisce sulla base di quali elementi.

Il quadro è talmente caotico che sul tavolo è stato messo un po’ di tutto. Il denaro della Cassa depositi e prestiti, il ritorno sulla scena della Sga (un attrezzo usato per salvare il Banco di Napoli alla fine degli anni ’90), soluzioni miste come il fondo Atlante o sue emanazioni (Atlante 2 o Giasone). E anche coi numeri si capisce assai poco: 15 giorni fa il governo ha fatto sapere di aver avuto un non meglio precisato disco verde da Bruxelles alla creazione di un fondo di garanzia pubblico per la liquidità degli istituti da 150 miliardi; parallelamente, è emerso un intervento da 40 miliardi (finanziato anche con fondi statali) per mettere in sicurezza le sofferenze; in queste ultimissime ore si parla di un piano dei banchieri, da «appena» 9 miliardi, per aggredire gli stessi prestiti non rimborsati.

Quei 9 miliardi dovrebbero corrispondere al totale dei cuscinetti di capitale chiesti dalla vigilanza. In campo è sceso anche il colosso Jp Morgan che potrebbe acquistare a sconto (con una maxicartolarizzazione) sia i crediti deteriorati del Monte paschi sia quello di altri istituti in crisi: in ballo ci sono 50 miliardi di spazzatura finanziaria sui quali gli avvoltoi della finanza Usa vogliono speculare.

Messa così, la soluzione sembrerebbe comunque dietro l’angolo. E invece da sole, le banche, non intendono muoversi. Attendono anche un passo concreto da parte del governo. Il ruolo dello Stato, tuttavia, è vincolato al placet di Bruxelles. E della Germania: è Berlino, del resto, a dettare la linea. E Angela Merkel sostiene che non ci sia bisogno, per le banche italiane, di sussidi pubblici. Il cancelliere finalmente ammorbidito? Macché: Merkel ha ribadito, in buona sostanza, il «no» agli aiuti pubblici perché senza interventi esterni, l’unico modo per salvare gli istituti di credito è l’applicazione della direttiva Ue sul bail in, vale a dire il fallimento pilotato che comporta un contributo di azionisti, obbligazionisti e, in ultima istanza, dei correntisti con depositi superiori a 100mila euro. Con Mps sarebbe un massacro. Da parte della Germania ancora un altro tentativo per mettere in ginocchio l’Italia.

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