Renzi dice che non si farà “rosolare”, ma in realtà non esclude un percorso che gli assicuri la permanenza

Ancora una volta, la Corte costituzionale ci mette lo zampino per tentare di influenzare i tempi della politica.

La sentenza sull’Italicum è pronta da tempo, da prima ancora del referendum. Ma i giudici della Consulta la avevano rinviata a subito dopo per non «influenzare» la campagna elettorale. Ora, guarda caso dopo l’annuncio di dimissioni di Renzi, la Corte fa sapere che non consegnerà il suo responso prima del 24 gennaio. Un chiaro tentativo di mettere una zeppa all’agenda pro elezioni del premier dimissionario. E infatti a Palazzo Chigi, incassato il nuovo intervento a gamba tesa delle alte magistrature, si rifanno i conti e si valutano i piani di riserva. Le alternative, ragionano in casa renziana, sono due: o si vota tra il 19 marzo e il 3 aprile, come chiedono i Cinque Stelle e la Lega, ma anche una parte del Pd, ed è il piano A.

 

 

Oppure, si arriva al 2018. «È quello che vogliono Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema», fa notare Renzi. «Ma per arrivare a fine legislatura ci vuole un governo, e lo devono fare insieme». Chi ha vinto il referendum sostenendo il No alle riforme, e Renzi lo ha detto subito dopo il voto, nel suo discorso notturno a Palazzo Chigi, deve prendersi «onori ed oneri» della situazione che ha contribuito a creare, tirando le conseguenze delle proprie scelte. Lui, di certo, non ha intenzione di restare appeso a «farsi rosolare» in attesa della Consulta.

Il piano B, dunque, prevede questo scenario: Renzi formalizza le sue dimissioni subito dopo l’approvazione con fiducia della legge di Stabilità al Senato, domani. Il Quirinale apre le consultazioni, e il segretario del Pd – forte del mandato della Direzione convocata per oggi – va a dire al capo dello Stato che il suo partito è disponibile solo a sostenere un «governo di tutti», inclusi i partiti del fronte del No, che abbia il compito di disegnare la nuova legge elettorale. Un modo per mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, lasciando la palla a Mattarella. E ben sapendo, come fa notare il renziano Roberto Giachetti, che nel fronte del No nessuno ha idee o piani condivisi: «Grillo, che fino a ieri diceva che l’Italicum era un obbrobrio incostituzionale, ora lo vuole allargare anche al Senato. Salvini vuol votare subito ma non col proporzionale. Brunetta invece dice che si può votare solo col proporzionale. Sel non vuole votare e non sa quale legge elettorale proporre». Una cacofonia totale, insomma. Mentre Mattarella fa sapere di considerare «inconcepibile» votare prima di aver «omogeneizzato» le leggi elettorali diverse di Camera e Senato. E a quanto pare è anche una risposta ad Alfano, che aveva evocato elezioni a febbraio e che ora aggiusta il tiro: per quanto riguarda il futuro della legislatura «l’ancoraggio resta il presidente, ci affidiamo a lui».

Oggi Renzi riunisce la direzione per farsi dare un «mandato pieno» con cui gestire la crisi, e per dire che o le forze uscite vittoriose dal referendum si prendono la responsabilità di fare un governo di scopo per la legge elettorale, oppure il Pd non teme le elezioni. E i renziani si aspettano un’adesione compatta, con l’isolamento della minoranza. Per capire quale sia il clima nella base del Pd, del resto, basta dare un’occhiata ai commenti sulla pagina Facebook di Pier Luigi Bersani, che con uno sconclusionato post rivendicava la propria battaglia per «non lasciare alla destra» il No. Uno sterminato elenco di interventi inferociti di militanti Pd che, nei casi più gentili, danno all’ex segretario del «Bertinotti» e del «Dibba», e che lo accusano di avere «per puro rancore personale» fatto saltare il governo del Pd. Un’autentica rivolta dell’elettorato democratico contro quel pezzo della sinistra che ha fatto la guerra al premier e alla riforma che in precedenza aveva votata.

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