Le canoniche tre ore prima del bagno dopo aver mangiato? Una bufala tutta italiana. E’ questo quanto risulta dopo una attenta analisi dei più interessanti articoli che compaiono sulla rete sull’argomento. Vi proponiamo quello di Natalia Genovesi, pubblicato su approdonews.it (QUI L’ARTICOLO ORIGINALE).

“Non farti il bagno dopo mangiato che ti viene la congestione”. Una delle immagini più vivide nella memoria dei miei traumi infantili è quella di me bambina, seduta sotto l’ombrellone, che me ne sto ferma ad aspettare lo scorrere delle fatidiche tre ore per poter entrare in acqua. A casa vostra non so, ma da me per la digestione del latte erano previste tre ore. Allora mi sembrava una verità assoluta, condivisa e avallata anche dall’entourage familiare che ruotava intorno al mio stesso ombrellone. Quindi, non avendo ancora sviluppato un certo senso critico, non mi ero mai presa la briga di chiedere ai miei coetanei se anche loro dovessero rispettare la stessa tempistica. Sotto quell’ombrellone ho iniziato a prendere confidenza col senso dell’attesa e con la relatività del tempo, e ho capito quanto infinitamente lunghe possano sembrare tre ore se ti separano da una cosa a cui aneli intensamente. L’infanzia è il luogo in cui si costruiscono credenze e si radicano falsi miti.

A casa mia c’era anche “A Ferragosto non si fa il bagno perché ogni anno il 15 Agosto qualcuno muore annegato” (ma perché avrei dovuto essere proprio io quel qualcuno?), “Non lasciarti i capelli bagnati perché se no ti viene la cervicale” (ma che roba è sta “cervicale”? Io ho sempre lasciato i capelli bagnati e le mie sette vertebre stanno una meraviglia), “Non toglierti la canottiera che ancora è presto” (il presto solitamente si prolungava almeno fino a Giugno). Ma è soprattutto la congestione il fantasma del passato che ognuno di noi si è portato dietro fino a una certa età, insieme ai peluche e ai poster di “Cioè”. Poi, finalmente, si cresce, si abbandonano gli orsacchiotti spelacchiati, si staccano i nostri idoli dalle pareti e si diventa grandi. Crescendo, si decide se portare con noi quel sistema di credenze o se emanciparci da esse. Si fanno le piccole esperienze in solitaria. Ti fai il bagno dopo aver mangiato e ti accorgi che non sei morta. Te lo fai a Ferragosto e scopri, con estremo stupore, di essere una dei sopravvissuti di quell’annata. Ti lasci i capelli bagnati e l’unico effetto collaterale è sembrare un incrocio tra un rasta e Sbirulino. Ti togli la canottiera e, inaspettatamente, non ti è venuta la polmonite.
Poi studi Medicina e fai il salto. Acquisisci delle conoscenze che ti possono permettere di guardare dall’alto in basso, irridendole, certe leggende metropolitane e di superare i traumi dell’infanzia. Al terzo anno studi Fisiopatologia e scopri che per congestione si intende “un aumento del volume di sangue all’interno di un tessuto”.
Al quarto ti confronti con le vecchie “cliniche”: sul libro di Malattie dell’Apparato cardiovascolare apprendi che la congestione è un “ristagno di liquidi” a livello dei tessuti, o dei polmoni, ed è il segno con cui si manifesta uno scompenso cardiaco; sul testo di Malattie dell’Apparato Digerente tra l’esofagite da reflusso e le emorroidi, invece, non trovi menzione di congestione e neanche qualche traccia di una piccola appendice con i tempi di di digestione. E allora? Ho vissuto estati intere con lo spettro della “congestione digestiva” seduto vicino a me sotto l’ombrellone e qualcuno sta venendo a dirmi che non esiste?

Chiariamo innanzitutto che la denominazione “congestione”, riferita alle situazioni di cui sopra, è un termine improprio. Se vogliamo essere precisi possiamo parlare di “sindrome da idrocuzione“, una dicitura usata molto in medicina forense: in pratica l’impatto brusco della cute (specie della faccia) con l’acqua fredda provoca, per un riflesso che si definisce “vagale”, una transitoria riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. Se questo fenomeno dura più di qualche secondo, si crea una situazione di minor afflusso di sangue, e quindi di ossigeno, al cervello, che può portare a perdita di coscienza. Inoltre lo stesso riflesso può determinare lo stimolo del vomito. Va da sè, che se queste situazioni si verificano lontano dalla riva possono portare, fortunatamente in rari casi, all’annegamento (la reale causa della morte). L’essere in fase digestiva, per una serie di motivi, può favorire l’insorgere della sindrome da idrocuzione. Inoltre, durante l’esposizione (soprattutto brusca) alle basse temperature si verificano dei fenomeni di ridistribuzione del sangue, che in quel frangente è, per una buona percentuale, dirottato verso l’apparato digerente. Questo, da una parte, impedisce i fisiologici meccanismi di adattamento al freddo; dall’altra, invece, interferisce col “lavoro” della digestione: malessere, crampi, mal di stomaco, nausea e vomito sono i disturbi che possono presentarsi in questa situazione. Inconvenienti che se si presentano mentre ci troviamo in acqua alta possono costituire un serio rischio. Analoga situazione si può verificare se vengono introdotte bevande molto fredde durante la digestione o quando si è molto accaldati. Nel primo caso si possono presentare gli stessi disturbi che si hanno immergendosi di colpo in acqua fredda, mentre nel secondo lo shock termico potrebbe attivare dei riflessi vagali fino al verificarsi di una sincope, ovvero una transitoria perdita di coscienza. Sono tuttavia molto scettica riguardo al fatto che tutto ciò possa condurre alla morte. Facendo una ricerca, in letteratura ho trovato un solo caso di morte in seguito ad ingestione di una bibita ghiacciata: un bambino affetto da una patologia cardiaca che lo predisponeva ad aritmie potenzialmente pericolose. In questo caso, il brusco abbassamento della frequenza cardiaca, che nei soggetti sani si risolve spontaneamente, su un cuore malato era stato fatale.
Negli altri casi, invece, la mia modestissima opinione è che la sintomatologia determinata dall’ingestione di una bibita ghiacciata è purtroppo comune ad altre situazioni di reale gravità, di cui potrebbe ritardare o mascherare addirittura la diagnosi, come un infarto o la rottura dell’aorta, situazioni che spesso provocano la morte in tempi brevissimi.

“Sì alla prudenza e no al terrorismo”: potrebbe essere questo il reef della vocina che ci accompagna in queste situazioni, a cui ci rivolgiamo, ad esempio, quando non sappiamo se buttarci in quest’acqua cristallina che ci alletta tanto. La stessa prudenza, sfrondata dagli orpelli del panico, può allora essere la risposta a questo dubbio amletico. Se abbiamo consumato un panino leggero, e ci immergiamo con calma, possiamo andare tranquilli.
Se ci siamo lasciati allegramente andare con teglie di lasagne e parmigiana di dimensioni tali da poter sfamare tutta la costa dei Gelsomini, accompagnate da contorno di peperonata d’ordinanza e, per finire, abbiamo buttato nello stomaco pure l’immancabile anguria, direi che qualche problemino potremmo averlo. In questo caso, il suggerimento della vocina è di aspettare qualche ora, immergersi piano, bagnandosi poco per volta per evitare il brusco sbalzo di temperatura, senza allontanarsi troppo dalla riva. Ma sappiate che anche quando il nostro apparato digerente sta tentando di smaltire un ristorante intero, se dovesse capitare di bagnarci sulla riva, o di essere investiti da qualche schizzo d’acqua, la nostra incolumità non sarebbe a rischio. Inoltre, con buona pace del tempario materno, riguardo al quesito “Quante ore devono passare?” va detto che la digestione è un fenomeno molto soggettivo che varia da persona a persona, da stomaco a stomaco. Altro fattore fondamentale è che nessuno conosce il proprio corpo e le sue reazioni come se stesso, quindi stare attenti ai piccoli disturbi e riconoscere i sintomi, tenendo presenti i propri limiti rappresenta un ulteriore sistema di sicurezza

E adesso, penso proprio che sia ora di alzarvi da quella sdraio e andare a buttarvi: c’è un mare bellissimo che aspetta solo voi.

 

 

 

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